
In Giappone c’è un bellissimo detto che collega il colore alla diversità: «jūnin toiro 十人十色» ovvero «Dieci persone, dieci colori». Ricordo lo appresi sui banchi dell’università; ero a Tōkyō da pochi mesi e intorno a me nessuno parlava la mia lingua. «Ribadisce – disse l’insegnante puntando l’indice su ognuno dei quattro caratteri tracciati sulla lavagna – come ogni persona sia diversa dalle altre, perché iro in giapponese non significa solo colore ma anche, nella sua origine cinese, ‘sentimento, parere’. In sintesi, per ogni persona un colore, per ogni testa un’opinione».
Sono passati quasi vent’anni da allora, ora mi trovo dall’altra parte dell’aula e sviscero parole come “stereotipo, pregiudizio, luogo comune” su un libro di testo, mentre gruppi di universitari giapponesi che sognano un giorno di venire a studiare in Italia mi domandano seri: «Ma allora, sensei, è vero che gli italiani sono tutti allegri? Che invece di lavorare preferiscono amare? Che gesticolano tantissimo e per la strada gli uomini cercano di rimorchiare le ragazze?». Sorrido, mi fermo. «E voi sapete cosa mi domandano gli italiani sui giapponesi? Se siete freddi come si dice, se mangiate sushi ogni giorno, se per la vergogna di sbagliare vi suicidereste…».
«Dieci persone, dieci colori»: ora so che, alla stessa maniera degli individui che sono in mille dettagli tutti diversi, più si conosce un popolo più ci si accorge che quel popolo – la macrocategoria degli «italiani», dei «giapponesi», degli «americani», degli «spagnoli» ecc., – non esiste.
Inizia così il lungo pezzo in edicola su Donna Moderna fino a mercoledì (ho postato la sola prima pagina). Ho parlato di stereotipi e di colori, dell’Italia e del Giappone, ma in generale di come essi debbano costituire il primo passo di una lunga passeggiata di esplorazione in una terra sconosciuta, strumenti per farsi un’idea generale di qualcosa di cui non si sa ancora nulla.
Buona lettura ❤️ Laura Imai Messina